domenica 31 gennaio 2010

Macchina!

Nelle sere d'estate, dal terrazzo di casa, potevo osservare la partita di calcio più lunga della storia. Si giocava ogni sera da giugno alla fine di settembre.

Lo stadio non era San Siro ma c'era tutto quello che serviva per una partita di calcio in notturna. Il rettangolo di gioco era delimitato dai palazzi, il terreno era l’asfalto dell’incrocio di via Lunigiana con via Severino Ferrari, così com'è ancora oggi.

L'impianto di illuminazione era quello della strada, il lampione sospeso al centro dell'incrocio con due pipistrelli che incrociavano i loro voli sotto la luce.

C'erano anche gli spalti gremiti: nel secondo anello il pubblico alla finestra, nel primo anello al balcone e per finire, i più fortunati, a bordo campo che, con la sedia portata direttamente da casa, si accomodavano sul marciapiede per conversare e guardare i ragazzini che giocavano. Mancava il terzo anello ma non ci sono grattacieli nella zona e anche San Siro, negli anni settanta, ne era sprovvisto.

Una volta scelte le squadre e i giocatori la partita aveva inizio, si giocava ad una sola porta: il grande cancello in lamiera della carrozzeria all'angolo. Questo è l’unico elemento che è stato sostituito nel tempo.

Esisteva una regola, che poi era anche legge, un odierno schema: a turno un giocatore doveva stare in posizione più lontana e non abbandonarla per nessuna ragione, era la vedetta.

All' incrocio, andando in direzione di Migliarina, la strada inizia a salire e dal campo di gioco non si potevano vedere le macchine in arrivo. Il suo ruolo era fondamentale doveva gridare.... ”MACCHINA!” e crossare all’occorrenza.

Il campo di gioco
Il campo di gioco

Al suo grido si interrompeva anche il dribbling più bello, la strada si liberava per un attimo e poi si poteva continuare. Visto dall’alto anche questo era uno schema perfettamente eseguito.

Un’ altra regola era quella di non tirare mai una “canata” alta verso la porta perché il pallone poteva finire nel piazzale della carrozzeria, troppo lontano dal cancello per essere recuperato e finire regolarmente tagliato la mattina dopo. Ogni sera le partite finivano con risultati tennistici e tanti sfottò.

Dimenticavo l’orario d’inizio degli incontri: ore ventuno circa, dopo Carosello.


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sabato 23 gennaio 2010

Il gioco delle biglie e dei tappini

Di biglie ne esistevano fondamentalmente due tipi: quella di vetro con all’interno delle ali colorate, più raramente vuote o di un unico colore, e quelle da spiaggia, generalmente in plastica costituite da due semisfere, una colorata e l’altra trasparente contenente al suo interno l’immagine di un ciclista.

Biglie da città
Biglie da città

Biglie da spiaggia
Biglie da spiaggia

Le prime erano biglie da città, le seconde, più grosse, adatte alla spiaggia oppure a cortili sterrati. Alle volte venivano chiamate palline, forse per distinguerle da quelle da città.

Dalle nostre parti i giochi più comuni da città erano il palmo e scontro e la variante del garo.

Entrambi venivano giocati o nei cortili o sotto i portici. Indispensabile per poter iniziare una partirta di palmo e scontro un muro o una superficie solida su cui far rimbalzare la biglia abbastanza lontano da quella avversaria: questa azione si chiamava appunto “spariglia”. Lo scopo del gioco era quella di colpire la biglia avversaria per impossessarsene.

La tecnica del tiro delle biglie
Il tiro
Colui che tirava, doveva posare la biglia nell’incavo formato dall’indice, leggermente curvato verso l’alto, e dalla punta del pollice destro. Poi appoggiava il pollice della mano sinistra per terra, nel punto in cui era posizionata la propria biglia, misurava un palmo, ruotava la mano sinistra sul mignolo, la chiudeva in posizione verticale al terreno, vi appoggiava la destra dove era presente la biglia e, stendendo rapidamente il pollice, lanciava la biglia verso quella del suo avversario.

Naturalmente doveva essere sicuro di colpirla, altrimenti passava la mano e rischiava di perdere la propria per cui, alle volte, si effettuavano tiri d’attesa, allontanandosi o avvicinandosi alla biglia dell’avversario, per indurlo a forzare e commettere un errore. Chi colpiva la biglia dell’avversario la conquistava e ricominciava il gioco con la "spariglia" iniziale sul muro o sulla superficie dura. Il gioco diventava molto più interessante se giocato in gruppo perché le condizioni variavano costantemente ed anche i litigi aumentavano in maniera esponenziale: in questo caso la partita finiva quando rimaneva in gioco solo l’ultima biglia.

Una variante era quella del garo che aveva bisogno di una buca di medie dimensioni, 20 o 30 centimetri di diametro: il nostro campo di gioco era sotto i portici di viale Italia, tra via San Cipriano e via Doria, lato mare, il cosiddetto palazzo rosso che aveva già allora una pavimentazione molto sconnessa e un po’ in discesa ed uno splendido garo, per la nostra felicità e fonte di parolacce per gli adulti che regolarmente ci incespicavano.



Il garo era una sorta di zona franca nella quale occorreva far cadere la propria biglia prima di poter attaccare quella avversaria. Occorreva quindi un doppio tiro, il primo per finire in garo, il secondo per colpire dal bordo del garo, con le stesse regole del palmo e scontro, la biglia avversaria ed impossessarsene. Rimasta una sola biglia in gioco, la partita finiva e si ricominciava, sempre ammesso di avere ancora biglie nelle tasche.


Una partita a biglie
Una partita a biglie

Ricordo due riti fondamentali prima dell’inizio di una partita. Le discussioni su quale gioco giocare che terminavano invariabilmente con il più deciso che diceva agli altri ”chi vuol giocare a garo (o a palmo e scontro) metta il dito qui sotto!” alzando una mano con il palmo rivolto al terreno e noi tutti lì con il dito, ed una frase velocissima detta in dialetto che era a metà tra un grido di guerra ed un richiamo alla lealtà, frase che non saprei ripetere un po’ perché all’epoca non conoscevo il dialetto, un po’ perché è passato un sacco di tempo.

Le palline si usavano invece quasi esclusivamente in spiaggia, ma occorreva una spiaggia ampia, Marinella ad esempio, per poter tracciare il percorso, generalmente con il sedere di un bambino, meglio una bambina perché più leggera da trainare. A seconda del fondoschiena si ottenevano piste diverse, più larghe o più strette, più profonde o più lievi. Alle volte si alternavano i sederi per ottenere un percorso più accidentato. Le piste migliori perché più dure si ottenevano sul bagnasciuga, ma spesso si giocava anche sulla sabbia asciutta che consentiva più inventiva.


Una partita a palline
Una partita a palline

Ognuno si sceglieva il proprio idolo a seconda del tipo di pista, i miei erano Taccone grande scalatore o Baldini grande passista, e lo posava sulla linea di partenza. Diversamente dalle biglie, era ammesso solo il tiro con il dito medio ed il pollice (o l’indice ed il pollice), il pollice da solo per i tiri brevi, prima di una curva ad esempio. Se si usciva dalla pista, si riposizionava la pallina nel punto da cui si era effettuato il tiro sbagliato e si passava il turno. Era assolutamente vietato tagliare le curve. Vinceva chi raggiungeva per primo il traguardo dopo un numero prestabilito di giri.

La variante cittadina delle palline da spiaggia erano i tappini, cioè i tappi a corona delle bibite. I tappini avevano il vantaggio di non costare nulla, si trovavano facilmente in casa o frugando nelle vicinanze dei bar, a differenza delle biglie per le quali si dovevano sborsare anche 10 lire l’una!

La pista la si inventava segnando con del gesso o una scheggia di mattone un marciapiede o utilizzando un percorso cittadino naturale che noi avevamo trovato nello spiazzo a quel tempo abbandonato che si trovava dove ora è il lato monte di Piazzale Kennedy. Quello spiazzo immenso veniva utilizzato solo per i tendoni dei circhi e per ospitare il Luna Park, o meglio, i Baracconi di Viotto, che si fermavano da novembre fino a gennaio, ma il resto dell’anno era totalmente vuoto. Si entrava per mezzo di un buco nella recinzione di maglie di ferro stando bene attenti a non avvicinarsi troppo alla carrozzeria che ne occupava un angolo per via dell’irritabile cane che ne faceva la guardia. Un tappo a corona
Un tappo a corona...

In genere ci si metteva nell’angolo diametralmente opposto alla carrozzeria, perché…. “non si sa mai”. I bordi dello spiazzo erano leggermente sopraelevati, una specie di marciapiede semisterrato correva lungo tutto il perimetro e consentiva di creare uno splendido rettilineo dal fondo in cemento regolare, mentre il resto della pista era fortemente accidentato.

Si giocava con un tappino ciascuno, con la corona rivolta verso l’alto. Le regole erano quelle delle palline da spiaggia, ma i tappini erano interscambiabili. C’erano quelli “da velocità” che si preparavano fregandone la parte superiore contro il marciapiede in modo da farli diventare lisci come lame, quelli “da curva” preparati facendo colare un po’ di cera da una candela all’interno della corona, ma solo su un lato in modo da favorire un movimento circolare del tappino, quelli “da salita” (o da discesa), appesantiti con la cera sciolta all’interno della corona in modo uniforme per evitare che prendessero troppa velocità e uscissero di pista. La pista dei tappini
La pista

Un tappino pronto per la corsa
Un tappino da corsa
All’interno della corona del tappino ufficiale, alle volte anche in quelli speciali, si incastrava l’immagine del ciclista preferito, ritagliato da un giornale o da una figurina. Anche in questo caso era severamente vietato tagliare le curve, mentre era ammesso buttare fuori il tappino dell’avversario per avvantaggiarsi.

Ogni giorno si creava una pista diversa fino ad inventarci un vero e proprio giro d’Italia dei tappini.

Si potevano trascorrere interi pomeriggi così, senza bisogno di altro.


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domenica 17 gennaio 2010

Il sentiero

All’inizio degli anni settanta si andava a scuola e si tornava a casa da soli, ovviamente a piedi.

Il primo giorno di scuola normalmente un genitore ci accompagnava per insegnarci la strada giusta da percorrere, alcuni arrivavano con il fratello maggiore che frequentava la stessa scuola.

Era così in prima elementare e si ripeteva la storia in prima media, una sorta di rito. Il secondo giorno di scuola dovevi andare con le tue gambe, perchè si andava a piedi, prendere il tram era per pochi.

La mia scuola media, “Generale Mario Fontana”, esiste ancora è ed al Canaletto, per arrivarci da Mazzetta bisognava percorrere via Severino Ferrari, attraversare viale Italia, percorrere via del Popolo e via del Canaletto e finalmente eri arrivato.

Esisteva un percorso alternativo per accorciare la strada, un sentiero (si, avete letto bene, un sentiero!) in parte ancora visibile. Si imboccava all'altezza dell'incrocio fra via del Popolo e via Gianturco e ti portava dritto dritto nel piazzale della scuola.

Era buffo, verso la fine della primavera, vedere i bambini che arrivavano a scuola spuntando fuori all’improvviso fra l’erba alta e gli alberi.


La prima parte del sentiero
La prima parte del sentiero
con l'imbocco in via del Popolo
Oggi tutta la zona è occupata da grandi palazzi e dal parco della Maggiolina.

Le prime volte il sentiero si percorreva tutto di un fiato con un po’ di timore, ma a poco a poco, con i nuovi compagni di scuola, appariva un mondo nuovo.

Percorrendolo ogni giorno si faceva una nuova scoperta, si viveva il cambio delle stagioni osservando i campi coltivati, con le rane che gracidavano nel canale che lo fiancheggiava, lontani dal rumore del traffico: sembrava di stare in un altro mondo e nascevano anche le leggende.

Si raccontava che in una casa vivesse un funambolo, che era una persona irascibile e se lo disturbavi potevi finire i tuoi giorni in un circo!

I più coraggiosi parlavano a voce alta sotto le sue finestre e, quando era la stagione giusta, “prelevavano” i cipollini direttamente dall’orto di fianco alla casa e li mangiavano davanti a tutti.

Nei pressi della scuola c’era una biforcazione del sentiero, così un giorno, tornando a casa, la decisione di vedere cosa c’era dall’altra parte.

Un ponticello di pietra passava il canale e si apriva un mondo bellissimo, gli alberi diventano più fitti e il verde più verde, anche il canale sembrava invitarti a fare un bagno.

Si fiancheggiava una casa in pietra, a quell’ora c’era sempre un profumo di mangiare da far venire l’acquolina in bocca, e si sbucava all’altezza di Corso Nazionale a fianco di due palazzi gemelli, chiamati le Due Torri, all’incirca dove oggi si trova via Mario Beghi.

La seconda parte del sentiero
La seconda parte del sentiero
che sbucava nel piazzale della scuola

Da quel punto si poteva attraversare corso Nazionale, un’area completamente sterrata che oggi è il parco della Maggiolina e poi viale Italia.

La strada per me diventava più lunga e il rischio di rimproveri per il ritardo nel rientrare a casa aumentava, ma ogni venerdì passavamo da quel sentiero.

Perché proprio il venerdì? Beh, il venerdì non si poteva perdere la Hit Parade della settimana che trasmettevano alla radio e c’era qualche compagno con una radiolina tascabile nella cartella che voleva passare da lì, ma questa è un’altra storia.



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sabato 16 gennaio 2010

Storia - Dalle origini al 1800

I dinosauri vivevano nelle paludi, gli spezzini… pure!

I primi atti che citano una località chiamata Spezia risalgono all’anno 1071. La località era lo sbocco a mare del castello di Vesigna, ora scomparso, collocato dove ora sorge il forte Castellazzo, o meglio, i suoi ruderi.

Gli spezzini, per il momento non propriamente spezzini, non erano scesi ancora a valle, abitavano sui poggi e le colline che sovrastavano il futuro “Golfo dei Poeti”, all’epoca assolutamente inospitale.

Immaginate l’insenatura dove ora sorge la città chiusa alle spalle dalle propaggini del Parodi, del Castellazzo e di Sarbia, ad ovest dal promontorio che finisce a Portovenere, ma privo della strada costiera ed a est dal Colle dei Cappuccini, l’ideale prosecuzione del Montetto, dove ora si erge la nuova cattedrale, fino al mare: al centro una gradevole distesa di acquitrini formati dalla congiunzione tra le acque dolci degli innumerevoli torrentelli che scendevano giù dai rilievi e quelle salate del mare. Un luogo ideale per le zanzare e per i salinai. E salinai erano infatti i nostri predecessori (il sale veniva utilizzato per la conservazione dei cibi ed era merce molto preziosa).

Ad est della piana di Spezia, oltre il colle dei Cappuccini, si estendeva la piana di Migliarina, molto più grande e probabilmente più ricca di terreno coltivabile. Le due piane erano verosimilmente collegate da sentieri e mulattiere lungo il colle, mentre non si hanno notizie di vere e proprie vie costiere.

La piana di Spezia e quella di Migliarina separate dal Colle dei Cappuccini
La piana di Spezia (1) e quella di Migliarina (2) separate dal Colle dei Cappuccini

Il minuscolo borgo di Spezia faceva parte della Podesteria di Carpena, ma nel 1252, i Fieschi, in lotta contro i Doria e gli Spinola per l’egemonia nelle terre liguri, lo acquistarono assieme ad altri territori e lo munirono di opere di fortificazione. Dieci anni dopo Niccolò Fieschi iniziò la costruzione del fortilizio che poi diverrà il Castello di San Giorgio.

Evidentemente, da buon genovese, risparmiò su mano d’opera e materiale perché, nel 1273, Oberto Doria attaccò la roccaforte di Spezia, prima struttura fortificata costruita sul Poggio, e sconfisse Niccolò Fieschi che nel 1276, con la coda tra le gambe, cedette tutti i possedimenti di levante, Spezia compresa, alla Repubblica di Genova per 25.000 lire.

Nel 1343 il borgo venne elevato dal doge Simon Boccanegra al rango di Podesteria: oltre a Spezia, comprendeva i borghi di Vesigna, Tivegna, Isola, Follo, Valeriano e Bastremoli, strappati alla Podesteria di Carpena.

Negli anni seguenti, il borgo si ingrandì e cominciò a dotarsi di cinte murarie difensive sul crinale che conduce a Castellazzo e Sarbia, nel punto della sua biforcazione, verso il Poggio e la Fondega. Le mura furono completate nel 1402 assieme al Castello di San Giorgio che sfruttò l’originaria costruzione dei Fieschi. In quegli anni venne costruita anche la “Bastia”, una torre difensiva di forma poligonale, oggi scomparsa, posta sulla sommità della collina, chiamata anche “Torrione Stella”.

Nel frattempo, sul Poggio, nucleo originario dell’odierna città, vennero edificati il convento e la chiesa di Sant’Agostino, quest’ultima originariamente destinata ad oratorio per il ricovero dei defunti.

Nel 1412 Genova soffocò nel sangue la rivolta dei paesi del Golfo fomentata dai Fieschi. Il borgo di Spezia, che era rimasto fedele alla Repubblica Genovese, ne approfittò per distruggere l'eterna antagonista Carpena ed appropriarsi di tutto il suo territorio.

Nel 1420 si diede l'avvio alla costruzione del Palazzo comunale, sede dell'autorità cittadina e luogo di assemblee.

Ai primi del 1400, il ponte del Canale di Piazza segnava il limite settentrionale della città, tanto da essere sormontato dalle nuove fortificazioni. All’interno delle mura il borgo si estendeva in una zona che oggi potremmo delimitare più o meno da questi perimetri:

  • A nord lungo via Rattazzi, da via Colombo fino al Castello di San Giorgio;
  • A est dal Castello di San Giorgio lungo via Da Passano fino a via Cavallotti;
  • A sud lungo via Cavallotti e poi via Carpenino fino a via Colombo
  • Ad ovest lungo via Colombo tra via Carpenino e via Rattazzi

Non c’è che dire, una vera metropoli!

Nella cinta si aprivano 6 porte:

  • A nord Porta di Genova (o di San Bernardino) ubicata su via del Prione all’altezza dell’attuale Museo Diocesano;
  • A est la porta Romana ubicata più o meno alla confluenza tra via del Torretto e via Da Passano;
  • A sud la porta del Carmine e la porta della Marina (o dei Settedolori) ubicate più o meno alla confluenza tra le attuali via Colombo e via Carpenino e tra le attuali via del Prione e piazza Mentana;
  • Ad ovest la porta di San Francesco (o del Fosso) e la porta Biassa (o del Macello o dell’Ospedale) ubicate più o meno alla confluenza tra via Sapri e via Colombo e via Biassa e via Colombo.

Il borgo di Spezia nel quattrocento

Nei secoli seguenti le mura e, conseguentemente le porte, cambieranno posizione tanto che si ha spesso notizia nelle cronache dell’epoca di uno spostamento progressivo verso nord della porta di Genova.

La chiesa di Santa Maria, costruita a metà del 1300, si trovava fuori delle mura, ma talmente vicina ad esse da costituire un pericolo in caso di attacco. Infatti, nel 1436, quando Spezia fu assalita dalle milizie di Niccolò Piccinino, capitano di ventura di Filippo Maria Visconti, venne presa la decisione di abbatterla per poi riedificarla all’interno delle mura.

Intanto cominciarono a costruirsi le prime case in muratura e le prime strade acciottolate e ad imbrigliare canali e torrenti per bonificare gli acquitrini subito fuori le mura, tanto che fu possibile creare anche un porto mercantile il cui molo principale si trovava dove adesso è via Diaz. Se la si percorre da via Chiodo verso il mare se ne possono ancora identificare i confini grazie ai segni delle bitte e agli anelli visibili sul selciato.

L'andamento delle vie del centro seguiva due direttrici principali, una verso il mare, che è l'attuale via Prione, e l’altro verso Biassa e verso Fabiano, dove incontrava la rivierasca proveniente da Portovenere che fiancheggiava la sponda destra della palude del Lagora.

Il centro della vita pubblica del borgo era, e sarà per secoli, Piazza Grande, l’attuale Piazza Beverini che aveva una fisionomia molto diversa dall’attuale. Oltre alla Chiesa di Santa Maria Assunta, svettava al centro il Palazzo Comunale, ma si hanno notizie anche dell’esistenza di un tribunale e di una prigione.

Nel 1455 in via del Prione venne edificato l’Oratorio di San Bernardino, una piccola chiesa ad un'unica navata a falde spioventi che per decenni, in tempi recenti, è stata sede della locale Pubblica Assistenza e che oggi ospita il Museo Diocesano. In origine la facciata della chiesetta era arretrata rispetto a via del Prione formando una piazzetta all’altezza della quale si apriva la Porta di Genova (o di San Bernardino).

Dopo la sconfitta dei Fieschi, Spezia tornò sotto la giurisdizione della Repubblica di Genova seguendone tutte le vicende politiche e belliche.

Nel 1464, i Milanesi di Francesco Sforza invasero i territori della Repubblica di Genova e costruirono a Spezia, ai piedi della collina del Poggio, un piccolo arsenale per la realizzazione di galere.

Alcune vecchie galere
Galere del quattrocento

Solo tredici anni più tardi, nel 1477, con la morte del duca Francesco Sforza, la Repubblica di Genova riprese il potere. Gli spezzini, in rivolta contro le autorità ducali, distrussero le opere dell'arsenale, attaccarono e presero il Castello e la Bastia.

Nel 1480 venne fondato il primo Ospedale intitolato a Sant’Andrea per iniziativa della confraternita della Santissima Annunziata. Costruito all'interno del perimetro urbano, si trovava nella parte ovest della città,vicino alla porta di Biassa.

Nel 1564 si iniziò la costruzione della fortezza di Santa Maria sul promontorio tra il Varignano e la Castagna per difendersi dalle incursioni corsare. Qualche anno più tardi, nel 1606, furono edificate la Torre Scuola vicino all'isola Palmaria, la Torre di San Gerolamo e il Forte di Sant'Andrea.

Nel 1616, nel punto dove è adesso il Museo Lia, iniziò la costruzione del convento dei frati di San Francesco da Paola (o Padri Minimi), con un chiostro quadrato con celle ai lati, mentre la chiesa a nord del convento, fu invece edificata qualche anno più tardi. Tale complesso venne a trovarsi fuori Porta Genova, poco oltre la cinta muraria seicentesca.

Nel 1654, per dare impulso ai commerci, vennero istituiti mercati settimanali e due fiere annuali coincidenti con i patroni della città, San Giuseppe (19 marzo) e Maria Assunta (15 agosto). Con l’occasione venne consentito l’ingresso in città anche ai mercanti ebrei e stranieri e qualche anno dopo, allo stesso scopo, venne modificato l'ingresso della città nella parte a levante, costruendo una strada bassa che aggirava il colle dei Cappuccini.

Per via della posizione molto defilata dalle grandi direttrici, in quegli anni non successe granché, se si escludono le scorribande dal mare di predoni di varie etnie, della marina austro-ungarica e di quella inglese ed il progetto del 1640, poi accantonato, da parte dei simpatici genovesi di una deviazione del corso del fiume Magra per convogliarlo nella piana della Spezia a favore del recupero di aree da destinare all’agricoltura laddove è adesso la foce naturale.

Naturalmente Spezia seguì per filo e per segno tutte le battaglie interne e esterne tra le diverse fazioni in cui era impegnata quasi giornalmente la Repubblica di Genova e tutti i suoi rovesciamenti.

L'importanza della città crebbe nel tempo, grazie anche alla natura di caposaldo militare svolta dal suo Golfo. Nel 1724 il governo della Repubblica di Genova decise la costruzione al Varignano di un Lazzaretto per la quarantena di merci e persone (le epidemie di peste all’epoca erano frequenti quanto il raffreddore al giorno d’oggi) ed elevò Spezia al rango di Governatorato.

Nel 1795, a seguito delle vicende della rivoluzione francese, Napoleone invase la costa e vi fondò la Repubblica Ligure. Anche il borgo di Spezia ne faceva parte come capoluogo del Dipartimento del Golfo di Venere.

Nel 1797 vennero soppressi tutti gli ordini religiosi: il convento e la chiesa dei Padri Minimi vennero requisiti ed i frati espulsi. Nel 1804, dopo aver effettuato alcuni lavori di trasformazione, entrambi gli edifici vennero adibiti ad ospedale civile e militare in sostituzione del vecchio ospedale di via Biassa.

Anche Napoleone era consapevole dell'importanza militare di Spezia e la elevò al rango di sede di Distretto, dichiarandola ufficialmente porto militare con decreto imperiale dell’11 maggio 1808.

L'imperatore voleva formare un grande arsenale militare nel lato occidentale del Golfo ed a questo scopo cominciò la realizzazione della strada fra Spezia e Porto Venere, ma diede inizio anche ad altre opere pubbliche di notevole importanza: collegamenti più moderni con Genova, Parma e Roma, il progetto per dotare la città dell’illuminazione pubblica e l’edificazione nel 1811 di un grande forte sulla cima della Castellana.


La Spezia è il più bel porto dell'universo. La sua rada è anche migliore di quella di Tolone, la sua difesa da terra e dal mare è facile, i progetti redatti sotto l'Impero e di cui si era cominciata a dare esecuzione, dimostrarono che con spese anche irrilevanti gli stabilimenti navali si sarebbero rivelati sicuri, all'interno di una piazzaforte capace della più forte resistenza.
Così Napoleone nel “Mémorial de Sainte Hélène” dettato al segretario de Las Casas a Sant'Elena.

Il progetto per la costruzione di un arsenale militare rimarrà però sulla carta a causa della fine dell'Impero napoleonico.

(continua...)


Continua...